L'Europeo trilingue: una speranza realistica?
In tutta Europa molte voci si innalzano in favore di un
trilinguismo generalizzato. Bisogna, ci dicono, che l’insegnamento delle
lingue miri a fare di ogni giovane Europeo un cittadino trilingue. Ma che cosa
vuol dire “trilingue”? Si tratta di possedere a fondo altre due lingue oltre
alla propria lingua madre? Il linguista Claude Hagège definisce questo livello
nel modo seguente: “Per me, conoscere perfettamente una lingua significa
essere capace di cogliere dei giochi di parole infilati su un tono molto veloce
da parte di parlanti madrelingua, e parlarla senza essere identificato come uno
straniero” e conclude dicendo: “Il numero di veri bilingui […] è
piuttosto ridotto.” Di fatto, questo livello di bilinguismo implica delle
circostanze eccezionali, come due genitori di lingua diversa o una scolarità
fatta in una lingua diversa da quella della famiglia. Semplici soggiorni
linguistici non bastano. Personalmente, ho vissuto cinque anni negli Stati
Uniti, lavoro molto in inglese, ho persino insegnato alla San Francisco State
University, ma non passerò mai per un anglofobo, e se vado a vedere una
commedia musicale americana,sono lontano dal coglierne tutte le finezze.
Un complesso groviglio di programmi
Una lingua è un complesso groviglio di programmi, nel senso
informatico, il cui svolgimento è costantemente inibito da centinaia di
migliaia di programmi secondari o terziari che interferiscono con i primi. Noi
non ce ne rendiamo conto, perché l’acquisizione della nostra lingua madre è
avvenuta inconsciamente, a un’età in cui niente ci permetteva di sospettare
l’ampiezza del lavoro che effettuavano i nostri neuroni.. Per esprimersi
correttamente, bisogna bloccare senza sosta le vie neuropsicologiche naturali.
Per esempio, se si vuole rendere con un aggettivo l’idea “che non si può
risolvere”, lo spontaneo gioco del cervello conduce a “irrésolvable”. Ma
bisogna sbarrare questa via e installare la deviazione che porta a
“insoluble”Un altro esempio: avete sentito stamani la signora Cristina del
Moral citare a più riprese il numero di parlanti questa o quella lingua. Il suo
francese era straordinario ma su questo punto preciso la tendenza naturale
l’ha spuntata sulla sua conoscenza della nostra lingua: “parleur” è la
forma cui conducono direttamente i meccanismi cerebrali per esprimere l’idea
,che il linguaggio corretto esprime con la parola “locuteur”. E allorché lo
straniero che impara il francese ha integrato”en hiver”( in inverno),
“j’y pense”(ci penso) e “biologiste”(biologo), deve inibire “ en
printemps” (in primavera-che si dice au printemps), “je lui pense”(penso a
lui- che si dice "je" pense à lui e “psychologiste” (psicologo-che si dice psychologue). Il
flusso nervoso non può seguire il suo movimento naturale, che lo porta a
esprimere concetti paralleli con forme parallele.
La nostra tendenza naturale consiste nel generalizzare ogni
tratto linguistico. Se tutti i bambini dicono “più buono” prima di dire
“migliore”, è perché generalizzano la struttura di più bello, più forte,
più piccolo, ecc. L’apprendimento di una lingua consiste nel decondizionarsi
dai riflessi della propria lingua madre, nel reintrodurre nel cervello una serie
di riflessi diversi, nel bloccare poi una percentuale molto elevata di questi
riflessi per portare ad una forma corretta che va contro la tendenza spontanea
alla generalizzazione. L’inglese che studia il francese deve imparare che non
può dire, come nella sua lingua, “je chante/vous chante”.Deve inserire il
riflesso che fa dire “vous chantez” Ma una volta messo a posto questo
riflesso, deve introdurre per certi verbi, un riflesso che lo blocchi. Mettere
un senso vietato davanti a “ vous faisez” e “vous disez” e una
deviazione che porta a “vous faites” e “vous dites”. Soltanto che, una
volta installata questa deviazione, bisogna ricominciare il lavoro con “ prédire”.
È stato indirizzato su una strada che porta a “ vous prédites”. Errore, si
dice “vous prédisez”. Lo vedete: imparare una lingua europea significa
sovrapporre più strati di riflessi gli uni sugli altri. Dico riflesso perché
non basta aver capito e memorizzato. Se dovete riflettere, percorrere tutte le
schede e tutti gli archivi classificati nella vostra memoria per trovare la
forma corretta, non parlate fluentemente. È il mio dilemma quando devo parlare
russo. Benché abbia alle spalle migliaia di ore di pratica di russo, ho la
scelta tra parlare correttamente,
ma lentamente, con un ritmo frammentario, spezzato, penoso, con un enorme sforzo
nervoso, o parlare fluentemente ma facendo ridere tutti, tanto i miei errori
possono essere buffi.
Un minimo di 10.000 ore
Servono almeno 10.000 ore di studio e di pratica per fissare
le centinaia di migliaia di riflessi necessari, il cui numero non si può
ridurre. Ora, l’insegnamento della prima lingua straniera comprende in totale
tra 800 e 1200 ore di lezione secondo il paese. Non è dunque sorprendente che
tra i diplomati solo uno su cento sia capace di esprimersi correttamente nella
prima lingua straniera imparata. Da 800 a 1200 ore è il decimo di quanto
servirebbe. Se si vuole che gli alunni padroneggino due lingue straniere bisogna
moltiplicare per venti il numero attuale di ore di lezione.
È in questo senso che ha optato il Lussemburgo dove, alla
scuola elementare, su 27 lezioni settimanali, 12 sono consacrate a due lingue
straniere, il tedesco e il francese: ossia 3000 ore per i sei anni di
elementari. Siccome lo studio delle lingue prosegue al livello secondario, il
Lussemburgo dispone effettivamente di una popolazione trilingue, ma i
Lussemburghesi sono meno bravi dei coetanei in matematica, in scienze e in varie
altre materie importanti. Inoltre, se i giovani non perdono queste lingue quando
entrano nella vita attiva, è a causa dell’eccezionale situazione geografica
del Granducato, dove i contatti con persone di lingua francese e tedesca sono
quotidiani.
In paesi come la Spagna, la Finlandia o la Francia si
dimenticherebbe presto ogni cosa perché i riflessi condizionati si mantengono
solo se sono rinforzati regolarmente. Lo constatate se restate qualche anno
senza parlare una lingua: le parole che non si trovano, gli errori che fate
appaiono laddove manca un legame condizionale tra concetti affini o tra un riflesso inibitore e una deviazione.
Trilinguismo o promozione mascherata
dell’inglese?
Se si vuole una popolazione trilingue, a quale livello si
mirerà? Un livello di padronanza nelle tre lingue è impossibile con il
semplice insegnamento scolastico e non si arriverà a poter finanziare soggiorni
linguistici di lunga durata per tutta la popolazione. Anche l’insegnamento di
alcune materie nella lingua straniera non porta al livello desiderato. In
Svizzera esistono dei licei che insegnano quattro materie in lingua straniera
per tre anni. Il livello degli alunni nella lingua in questione è certamente
ben superiore a quello che dà l’insegnamento tradizionale, ma è comunque
ancora lontano dalla padronanza. Se ci si limita alle lingue europee, l’unica
soluzione realista sarebbe un trilinguismo comportante una buona conoscenza
della lingua madre, una conoscenza imperfetta ma relativamente operazionale di
una seconda lingua e un’iniziazione a una terza lingua che permetta, non
proprio di usarla, ma di averne una certa idea, il che, culturalmente parlando,
si giustifica, giacché più modi diversi di esprimere le stesse idee si
trovano, più la mente si sviluppa.
Purtroppo questo sistema comporta dei gravi inconvenienti.
Favorirebbe un’ineguaglianza in favore dei paesi anglofobi. In effetti si può
comunicare da un paese all’altro solo se una delle lingue insegnate è la
stessa per tutti. Sennò come potrebbe un trilingue portoghese-greco-danese
avere uno scambio serio con un trilingue finnico-tedesco-francese? I genitori
esigeranno quindi che la lingua imparata più a fondo sia l’inglese. Quanto
agli alunni di lingua inglese, la maggior parte sarà poco motivata
all’apprendimento di altre due lingue, poiché sanno che, dovunque vadano,
potranno tirarsi d’impaccio con la loro lingua madre. Ora, il principale
fattore di successo nell’apprendimento di una lingua è la motivazione.
Paradosso: si sprona il trilinguismo per salvaguardare la diversità, per
assicurare una migliore conoscenza reciproca di tutti gli Europei, ma in effetti
li si porta ad una diretta sottomissione all’anglofonia, con, come
conseguenza, l’assimilazione di un modo di pensare che non ha niente a che
vedere con le tradizioni mentali e culturali dell’Europa continentale.
Quindi non andiamo verso un trilinguismo generalizzato dove
tutti sarebbero più o meno allo stesso livello, ma verso un bilinguismo più o
meno effettivo con il rafforzamento dell’ineguaglianza tra i popoli. I popoli
non si trovano su un piano di parità di fronte all’inglese: i Germanici sono
favoriti in confronto ai Latini, e i Latini in confronto agli Slavi e agli altri
Baltici. L’inglese è fondamentalmente una lingua germanica, dunque vicina
alle lingue scandinave, al tedesco e all’olandese. Ha molto in comune con
queste lingue, non solo a livello di lessico base e di grammatica, ma a dei
livelli molto più sottili. C’è uno spirito comune alle lingue di questo
ceppo che è estraneo alle lingue neolatine e slave. Ma se le persone di lingua
romanza sono svantaggiate rispetto
ai Germanici, esse sono in una situazione molto più favorevole di quelle
dell’Europa orientale.
Una delle difficoltà dell’inglese riguarda il suo immenso
vocabolario, che rappresenta circa il doppio di quello di un’altra lingua
europea, poiché un enorme apporto francese e latino si è aggiunto alla base
germanica senza sostituirla. Non si sa l’inglese se non si conoscono
contemporaneamente fraternal e brotherly, liberty e freedom, vision e sight. Un
occidentale conosce già uno dei due termini, ma un Ungherese o un Estone no.
L’adozione dell’inglese come mezzo di comunicazione internazionale crea una
gerarchia tra i popoli: non è democratica.
Una soluzione davvero realistica
L’unica possibilità di evitare un rafforzamento della
posizione egemonica dell’inglese implica una presa di coscienza da parte delle
autorità e dei mezzi di comunicazione di massa. Purtroppo questa presa di
coscienza urta contro un’enorme resistenza. Il tema che sto per introdurre ora
è un tema in cui i luoghi comuni sono estremamente diffusi e in cui le persone
che hanno realmente aperto il fascicolo sono poco numerose. Mi affido alla
vostra apertura mentale e vi invito ad ascoltarmi senza preconcetti. Tutto ciò
che sto per dire si fonda, da un lato, sulla mia esperienza, soprattutto sulla
mia infanzia, e dall’altro, su di uno studio dei fatti di ordine culturale,
pedagogico, linguistico, fonetico e neuropsicologico. Poiché si tratta di
fatti, tutto quanto mi accingo a dire è perfettamente verificabile, anche se ciò
sembra sbalorditivo.
Esiste un trilinguismo realistico, esente dagli
inconvenienti di quello di cui ho parlato fin qui: il trilinguismo “lingua
madre – esperanto – altra lingua”.
L’esperanto è interamente fondato sul diritto di
generalizzare ogni tratto linguistico. Ciò significa, dal punto di vista
neuropsicologico, che fa l’economia di tutti i riflessi secondari o terziari
messi a punto nelle altre lingue per inibire i primi riflessi impiantati.
L’alunno che impara un’altra lingua ha l’impressione di essere impegnato
in un percorso che un sadico ha cosparso di tranelli apposta per farlo
incespicare. Ora, l’impianto dei riflessi che impediscano di cadere in queste
trappole rappresenta circa il 90% del tempo necessario all’acquisizione di una
lingua. Siccome, in esperanto, queste trappole non esistono, il risparmio del
tempo necessario all’apprendimento è enorme. Un mese di esperanto conferisce
un livello di comunicazione paragonabile a quello che un’altra lingua dà in
un anno. Detto altrimenti, dopo sei mesi di esperanto, a parità di ore
settimanali, l’alunno ha una capacità di comunicare equivalente a quella che
possiede, per un’altra lingua, al termine dei suoi studi superiori. Questo
significa che basta insegnare l’esperanto per un semestre, o alla fine
dell’istruzione elementare o all’inizio di quella secondaria, per realizzare
la prima tappa: il bilinguismo “lingua nazionale – lingua internazionale”.
Per tutto il resto della scolarità, quindi, l’alunno dispone, per imparare la
terza lingua, di tutte le ore attualmente consacrate alla seconda.
Aspetti relazionali e pedagogici
Le possibilità
di conseguire un buon livello in questa terza lingua sono tanto più reali in
quanto l’esperanto presenta dei vantaggi considerevoli in qualità di materia
propedeutica, cioè per la preparazione allo studio delle lingue. Un francese
che impara il tedesco deve disabituarsi a un sistema complesso, rigido e
arbitrario per trasformare in nuove abitudini un altro sistema complesso, rigido
e arbitrario. Per passare da “je vous remercie” a “ich danke Ihnen”,
bisogna modificare i riflessi riguardanti la collocazione del pronome e quelli
che si riferiscono alla natura diretta o indiretta del complemento oggetto.
Se ho usato il termine “arbitrario” è perché questa
sostituzione di riflessi non ha niente a che vedere con le esigenze della
comunicazione. Se dico “je remercie à vous [= ringrazio a voi]”, che è la
traduzione letterale dell’espressione tedesca, mi capite perfettamente. La
comunicazione passa per quanto riguarda il contenuto. Ciò che differisce dalla
comunicazione normale è che ho un’aria strana, non siamo sullo stesso piano.
E’ a livello relazionale che c’è un problema.
Può capitare che questo livello relazionale sia importante. Anche se il contenuto dell’enunciato è trasmesso bene, dato che quelli
che ascoltano tengono conto del
contesto, se si introducono delle connotazioni pesanti, ciò può essere molto fastidioso. Una ministra danese, la
sig.ra Helle Degn, aveva appena assunto l’incarico quando ha dovuto presiedere
una riunione internazionale. Esprimendosi in inglese ha voluto dire:
“Scusatemi, non conosco bene la pratica, sono appena stata nominata” e ha
detto “I’m at the beginning of my period” che significa “Sono
all’inizio delle mie regole”. Tutti hanno capito ma il suo prestigio ne ha
risentito molto.
Quando si parla una lingua straniera, si ha spesso l’aria
meno intelligente di quanto non lo si sia.
Dunque se vi dico “je vous remercie à vous”, mi capite
ma non do l’impressione di quello che sono in realtà.C’è qualcosa di
falsato tra noi.Uno dei vantaggi dell’esperanto è che esso evita questo
genere di problemi grazie alla sua grande libertà lessicale e sintattica. In
esperanto si può dire, seguendo la struttura francese “je vous remercie”,
“mi vin dankas”, seguendo quella inglese “mi dankas vin” e seguendo
quella tedesca “je remercie à vous” “mi dankas al vi”. Siccome le tre
espressioni sono tutte correnti, nessuna appare strana. Un altro esempio, questa
volta riguardo le strutture lessicali. In francese posso dire “vous chantez
merveilleusement [= cantate meravigliosamente], ma non mi è consentito di
applicare la stessa struttura ai concetti ‘musique’ e ‘beau’: “vous
musiqeuz bellement” è comprensibile ma scorretto. In esperanto, come potete
dire “vi kantas mirinde” “vous chantez merveilleusement”, così potete
dire “vi muzikas bele” o “vi bele muzikas”. In altri termini, il bambino
che impara l’esperanto impara ad esprimere il suo pensiero secondo delle forme
molto più varie che in qualsiasi altra lingua, e questo senza fare
l’esperienza pedagogicamente sfavorevole dell’errore. C’è allargamento
del senso e della creatività linguistici senza sensazione di fallimento. È
estremamente gradevole e incoraggiante. Posso testimoniarlo. L’esperanto è
stata la mia prima lingua straniera. E’ lui che mi ha dato la passione per le
lingue.
Un altro vantaggio psicologico dell’esperanto è che esso
non obbliga a rivestire un’altra identità. Imparare a pronunciare
l’inglese, è imparare a scimmiottare gli Anglosassoni. Molti giovani che
hanno fisicamente tutto quanto serve loro per pronunciarlo come conviene, non ci
riescono a causa di un blocco psicologico. Per imitare la pronuncia inglese
bisogna rinunciare ai propri modi francesi di posizionare la lingua, le labbra,
il velo palatale, ecc. Ciò è spesso vissuto come una perdita d’identità. In
esperanto tutti hanno un accento straniero e variazioni di pronuncia molto
grandi sono considerate del tutto normali. L’esperienza prova che, a
differenza di quanto succede con l’inglese, esse non nuocciono alla
comprensione per ragioni fonetiche che sarebbe troppo lungo esporre qui. In
altre parole, l’esperanto prima di un’altra lingua è come le scale prima
del concerto, come la ginnastica prima di sciare; è un mezzo per prendere sul
serio l’articolazione tra due sistemi rigidi e arbitrari. L’esperienza prova
che è un mezzo efficace. Una classe che ha fatto un anno di esperanto seguito
da cinque di tedesco arriva, in tedesco, allo stesso livello di una classe che
ha fatto sei anni di tedesco, senza perdere niente.
Se le nostre autorità, i nostri rappresentanti al
Parlamento europeo e nei parlamenti nazionali, i partiti politici, l’élite
universitaria, economica e culturale volessero veramente che gli Europei
mantenessero la loro diversità linguistica, conservassero la loro identità con
rispetto delle diverse identità, allargassero i loro orizzonti culturali e
comunicassero tra loro, qualunque sia il loro paese, con la stessa disinvoltura
che nella loro lingua madre, riconoscerebbero
che il trilinguismo “lingua madre – esperanto – altra lingua” si
presenta come l’unica soluzione realista. È la conclusione cui si giunge
allorché si guarda da vicino come le cose si svolgono in realtà. Insisto su
questo obbligo di guardare alla realtà perché il discorso sulle lingue, così
come si svolge nei ministeri, negli organismi europei e nei mezzi di
comunicazione di massa, non si basa praticamente mai sullo studio del reale.
Minimizza l’importanza dell’handicap linguistico nella vita quotidiana,
minimizza terribilmente la difficoltà delle lingue, lascia grande spazio al
“laissez faire”e fa come se l’esperanto fosse un’idea, un progetto e non
una realtà linguistica facilmente osservabile.
La formula che propongo è quindi l’unica realistica sul
piano del contenuto, sul piano tecnico, se così si può dire. Purtroppo temo
che non sia ancora realistica dal punto di vista socio-politico-psicologico. Da
una parte le forze sociali che spingono al monopolio dell’inglese sono
estremamente potenti. Hanno a che fare con il potere, con la situazione sociale,
con interessi economici, ma anche con fattori
molto influenti come la moda e lo snobismo. D’altra parte, c’è una
resistenza tenace ad aprire il fascicolo “esperanto”. È un campo in cui le
persone altolocate, ma spesso anche i giornalisti e molti linguisti giudicano
senza studiare i fatti, come se sapessero in anticipo tutto quel che c’è da
sapere, come se ci si potesse fare un’idea della natura e del funzionamento
dell’esperanto e della cultura che gli è associata, senza documentarsi e
senza osservare come esso si presenta laddove è utilizzato.
Eppure, la posta è enorme sia per i valori rappresentati
dalla diversità linguistica sia per l’uguaglianza tra i popoli, e dunque la
democrazia. Molti sono coscienti dell’importanza di questa posta. Ma quelli
che si prendono la briga di informarsi seriamente sui vari modi di affrontarla,
studiando come le cose si svolgono in pratica e facendo i paragoni senza i quali
non si può avere una visione oggettiva della realtà, sono, ahimè,
estremamente pochi.
Per fortuna, come diceva Lincoln, si può nascondere una
parte della verità a una parte della popolazione per un lasso di tempo, ma non
si può nascondere tutta la verità a tutta la popolazione per tutto il tempo.
Una presa di coscienza può quindi intervenire in modo inatteso e, una volta
presa coscienza, le cose possono andare molto in fretta. Chissà se, proclamando
il 2001 “Anno europeo delle lingue”, il Consiglio d’Europa non ha preso
l’iniziativa necessaria, per stimolare la ricerca coscienziosa della verità e
dunque delle soluzioni che escono dalle piste battute?
(Traduzione di Michele Bondesan)
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