La resistenza psicologica alla lingua internazionale
Saggio apparso,
in Esperanto e in inglese, nella rivista “Heroldo de Esperanto”, 1980, nn. 1666-1668
e nel volume di R. EICHHOLZ e V.S. EICHHOLZ Esperanto in the modern world Bailieboro
(Ontario), Esperanto Press, 1982, nonché in tedesco, nel volume di più autori
Warum Esperanto?, Vienna, Österreichisches Esperanto—Institut, 1981.
Premessa: scopo e limiti del mio
studio
Immaginiamo una
conferenza di ministri che abbia avuto l’incarico di discutere i problemi della
comunicazione fra le città Vi saranno tutta una serie di discussioni sul costo
di tali comunicazioni, sui risparmi che si potrebbero fare raggruppandole,
sulla preferenza da accordare, nell’inoltro di dette comunicazioni, al trasporto
per via ferrata, per strada o per elicottero. Nel bel mezzo di questa
approfondita discussione una voce si leva: “Ma perché non tenete conto del
telefono?”. E tutti scoppiano a ridere, incapaci di rendersi conto che chi ha
fatto quella proposta parlava sul serio. Così le sue parole vengono soffocate da
critiche varie, formulate nel tono di chi parlasse a un bambino sciocco: “Si,
abbiamo sentito parlare di questa idea originale, ma tutti sanno che è stata un
fallimento”. - “Il telefono è qualcosa di artificiale, come si potrebbe
chiedere aiuto in un caso di urgenza?” - “Il telefono non si è sviluppato in
modo umano e naturale: noi stiamo parlando qui di una comunicazione autentica,
di una comunicazione di sentimenti, di poesia, di questioni tecniche complesse,
e così via”.
Quando il primo oratore protesta: “Ma vi giuro, il telefono funziona per tutti
questi scopi: l’ho usato io stesso”, tutti replicano: “Non ci siamo riuniti
per parlare di queste sciocchezze, ma per discutere seriamente un problema
serio”.
Un tale atteggiamento è caratterizzato da un proposito deliberato, ancorché
animato da un fine in sè buono, di rifiutare il controllo di affermazioni controllabili.
Per sorprendente che ciò possa apparire da un punto di vista logico,tale atteggiamento,
in ordine al problema linguistico nella comunicazione internazionale è, nella
società odierna, un dato di fatto. l’Esperanto esiste. Esso funziona con la
più completa soddisfazione di coloro che lo usano. Ma la sua capacità di risolvere
i problemi della comunicazione fra le nazioni e fra i popoli è vanificato: la
gente non lo prende sul serio.
Molti fattori vi contribuiscono, e io non discuterò quelli di natura politica,
economica, pedagogica, sociale ecc. Voglio concentrare la mia attenzione sui
meccanismi che agiscono psicologicamente: anzitutto perché nessuno degli altri
fattori avrebbe effetto se non andassero congiunti con tendenze, nella personalità
di ciascuno, che vanno nello stesso senso: e secondariamente, poi, e molto
semplicemente, perché la psicologia è il settore di mia competenza.
Le considerazioni che
seguono sono fondate su un mio lungo studio di questi fatti. Da principio io non
mi proponevo in modo particolare di studiare scientificamente il problema della
resistenza all’Esperanto. Vivevo simultaneamente in due ambienti. In uno,
quello dell’Esperanto, la comunicazione interculturale funzionava senza
difficoltà. Nell’altro, quello delle organizzazioni internazionali - a quel
tempo lavoravo alle Nazioni Unite - tale comunicazione
Internazionale funzionava in modo estremamente insoddisfacente, nonostante
le notevoli somme di denaro spese in traduzioni e interpretazioni simultanee. In
altre parole, mi trovavo nella situazione di una persona che viva in un ambiente
in cui il telefono serva a molti scopi, ma circondata da persone che se ne
facciano beffe e addirittura ne neghino l’esistenza. Fui colpito dal fatto che
queste persone comportantisi in modo così strano erano tuttavia molto
intelligenti e fui incuriosito dalle ragioni che bloccavano quella loro
intelligenza, quando dette persone consideravano questa realtà che per me
non costituiva un problema.
Cambiai la mia attività
professionale, passando dal campo della traduzione internazionale a quello
della psicologia (con specializzazione nello studio della personalità e della
psicologia dell’inconscio), poiché volevo studiare un settore che potesse
chiarirmi ciò che io considero un atteggiamento non intelligente di tante
persone intelligenti.
“Colloquio
clinico”
Nel corso dei miei
studi ho imparato la tecnica del cosiddetto “colloquio clinico”, che è una
maniera di conversare col paziente escogitando sempre nuove ipotesi sui fattori
psicologici in questione e di controllare dette ipotesi incoraggiandolo a
esprimersi su questo o quel punto. E’ così che ho discusso il problema della
comunicazione linguistica con circa 70 persone, scelte a caso, ovviamente col
loro permesso. Non ne ho mai incontrata una a cui dicessi quanto segue e che
abbia rifiutato di parlare con me: “Svolgo uno studio di carattere psicologico e
vorrei conoscere la Sua opinione sul problema della comunicazione
internazionale con mezzi linguistici, e la Sua reazione a questa o quella
proposta in tale campo”.
Poiché il punto da
esaminare è la resistenza alla lingua internazionale, non considererò le persone
immediatamente favorevoli a quest’idea, ma solo quelle che si sono
pronunziate in modo sfavorevole. Inoltre non farà distinzione fra coloro che
respingono l’idea di una lingua internazionale In genere e coloro la cui critica
si rivolge più precisamente a quella particolare lingua che è
l’Esperanto.
La cosa che forse più
mi colpì, fra le persone scettiche nei confronti di quest’ultimo, fu il loro
senso di sicurezza. Intendo dire con questo che per esse era assolutamente
evidente che una lingua come l’Esperanto non può servire. Stante tale loro
certezza, esse non controllano i fatti, non dedicano alcun tempo a riflettere
sul problema e considerano chi pensa diversamente persona da non prendersi
sul serio.
Per dette persone è
pertanto incomprensibile che uno possa seriamente proporre l’Esperanto come un
modo per risolvere i problemi della comunicazione internazionale. Una tale idea
li irrita, come li irriterebbe l’interruzione di un fanciullo fantasticante
su un tesoro appena trovato, fatta nel momento in cui essi stiano facendo
calcoli complicati su come pareggiare il bilancio.
Il loro atteggiamento
può esser espresso con queste parole: l’Esperanto non può funzionare,
poiché una lingua non può esser così. Gli Esperantisti non riescono a
comprendere quel non so che d’indefinibile, d’indicibile che costituisce
l’essenza di una lingua e che non può esservi In una lingua
pianificata.
Approfondendo
l’indagine, si scopre che un tale atteggiamento nasconde in realtà una
concezione profonda che costituisce quasi un “mito della lingua”. E se s’indaga
ulteriormente in cosa consista un tale mito linguistico, ci si accorge che esso
affonda le proprie radici nei primissimi anni della vita.
Il fenomeno “lingua”
Studiando il modo In
cui l’adulto medio intende il fenomeno “lingua”, fIniamo per scoprire un insieme
di elementi strutturati che, durante l’evoluzione della personalità, si sono
aggregati a un nucleo iniziale apparso nella primissima infanzia. Questo nucleo
iniziale è caratterizzato dall’atmosfera magica di quei primi anni di vita. In
confronto con l’infante che può solo piangere e agitare la mano, il bambino un
po’ più grande che può dire: “dito fa male”, o anche solo “fa male qui”,
mostrando Il dito, ha un sentimento estremamente profondo di capacità, dl forza,
di efficienza, seppure sensazioni di questo genere, non distintamente pensate,
possono esser tradotte nel linguaggio degli adulti. La possibilità di comunicare
con le parole costituisce un tesoro a cui il fanciullo attribuisce uno
straordinario valore.
Il fanciullo pertanto
non riesce ad avvertire Il carattere convenzionale della lingua: che percepisce
come un tutto magicamente trasmessogli (egli non ha coscienza, almeno
all’inizio, d’impararla) e come un tutto che non è lecito modificare. Molto
presto egli Imparerà che “non si può dir così, ma si deve dir così”. Egli non
comprende le norme sociali come tali, e cioè come convenzionali, giacché esse
gli appaiano definite da una potenza esterna, rispetto alla quale l’individuo
non è nulla. Questi due elementi — l’efficacia magica, In confronto col grido
non articolato, e l’assoluta superiorità della lingua rispetto all’individuo -
costituiscono il nucleo affettivo, emozionale del concetto di “lingua”. Quando
il fanciullo entra nella scuola, l’insegnamento della lingua materna,
relativa al modo di scriverla, rafforza ancora quella convinzione che Il
linguaggio non è qualcosa di creato dall’uomo, ma qualcosa di ricevuto già
pronto. Esser compreso non è sentito come criterio sufficiente di correttezza.
Il messaggio che la società trasmette, e che il fanciullo inconsciamente
assorbe, è che la lingua rappresenta qualcosa di radicalmente diverso da un
mezzo per comunicare: essa costituisce una tradizione sacra.
Quando poi lo stesso
fanciullo avanza negli studi e nella conoscenza della letteratura, gli viene
altresì fornito tutto un insieme di valutazioni estetiche che completano questa
rete di concetti e sentimenti, strutturati fin dalla prima infanzia in un
complesso coerente; e lo studio delle lingue straniere sarà fonte di ulteriore
conferma: “non si dice così, ma cosi”. E anche se il fanciullo sente questo o
quell’aspetto della lingua studiata come una complicazione sciocca, illogica e
irrazionale, questo non implica mai, per lui, che si abbia il diritto di
modificar qualcosa di detta lingua. la conclusione - generale, ma Inconscia - di
tale lunga evoluzione è che la lingua appare come un dono magico, ricevuta e
trasmessa senza cambiamenti, dotata di un’anima indefinibile e illuminata da una
sorta di vita mistica, superiore alle possibilità di decisione
degl’individui.
La cosa si complica poi
ulteriormente per il fatto che noi riceviamo quella donazione magica dalla
famiglia, dalle persone che ci circondano, e cioè da coloro che a poco a poco ci
aiutano a definire la nostra identità. Il fanciullo scopre via che gli esseri
umani sono diversi, e diviene sempre più necessario per lui sapere a quale
categoria egli appartenga. Queste categorie che definiscono la nostra identità, la
nostra appartenenza, non sono moltissime. Le principali sono il sesso, la razza,
la religione, lo stato sociale, il Paese e la lingua. Ebbene, la lingua è legata
così profondamente al nostro sentimento di appartenenza, che non si è disposti
ad attribuire il rango e la qualità di vera lingua a un mezzo di espressione che
non è mai stato connesso con un gruppo etnico definito. Perciò i più reagiscono,
di fronte all’esperanto, come se questo volesse privarli della loro identità
etnica o culturale. il ragionamento inconscio è, più o meno, Il seguente:
l’Esperanto non è legato a un’identità etnica; se io lo adotto, adotterò anche
una maniera di pensare e di sentire senza rapporto con la mia identità etnica:
dunque diventerò un essere privo di tale identità.
Cultura
Un ragionamento simile
si presenta in ordine alla cultura. Questa si basa in modo profondo sulla
lingua, e deve esser di necessità secolare. Perciò, se io imparassi una lingua
non avente dietro di sé molti secoli di cultura, imparerei a sentire e a pensare
senza cultura e diverrei io stesso un essere privo di cultura. Visto in tale
luce, l’Esperanto appare come un aggressore, come un ladro che ci vuol rubare la
nostra identità linguistica e culturale, a cui dobbiamo tanto. L’Esperanto è
dunque come un criminale che voglia distruggere secoli di creazione artistica e
in qualche modo attentare alla nostra stessa anima, che vorrebbe schiacciare
fino a ridurla senza vita, senza cultura, senza umanità. L’Esperanto è persino
più terribile di un ladro, giacché il ladro vive, mentre una lingua pianificata
evidentemente non può pulsare come il sangue, non può aver un cuore che batte,
può esser solo un robot, un automa mostruoso ed ovviamente geloso delle vere
lingue, giacché quelle vivono e lui no, per cui egli tende a odiarle e a
distruggerle.
Quando si cerca di
esprimere con parole tali sentimenti, risulta evidente il carattere infantile,
irrazionale di un tale atteggiamento. Si tratta invero di timori infantili,
d’incubi di un’infante terrorizzato dall’idea che quel mostro, lupo, ladro entri
nella propria camera per portarlo via e divorarlo. Forse voi pensate che io
esageri, che nella mente di coloro che si oppongono all’Esperanto non vi siano
immagini così irrazionali. Eppure nella mia ricerca ho constatato che molto
spesso, sol che si inviti chi si oppone all’Esperanto a esprimersi liberamente e
a lasciar che le idee si associno spontaneamente l’una all’altra, ben
presto si ascoltano espressioni immaginose del suoi sentimenti del tipo
descritto sopra. Ecco ad es. quanto si legge in “Foreign Language Annals”, rivista statunitense di
glottodidattica, in un testo dovuto a un certo Norman D. Arbaiza:
“La lingua, come l’amore e
l’anima, è qualcosa di vivente e umano, per quanto difficile sia definirla: è il
prodotto naturale dello spirito di una razza, non di un uomo da solo /..... / Le
lingue artificiali sono abominevoli e grottesche, come un uomo con una gamba e
un braccio di metallo, o con un pacemaker Il dottor Zamenhof, come il dottor
Frankensteln, ha creato un mostro fatto di parti e pezzi viventi, e nulla di
buono potrà risultarne”.
Di fronte a simili
reazioni nasce la domanda: costoro hanno ragione? Forse essi percepiscono
istintivamente una realtà o un pericolo che gli Esperantisti ciecamente
misconoscono?
Questa domanda merita
di esser discussa in modo scientifico e obiettivo. E il metodo per rispondere ad
essa è facile: basta controllare, nelle persone che hanno imparato e che usano
l’Esperanto, se esse effettivamente abbiano dimenticato la loro cultura e
identità, me abbiano perso le proprie caratteristiche umane e si siano
trasformate in ombre pallide senza cultura né vita. Ebbene: nella realtà non
accade nulla di simile, anzi avviene il contrario: coloro che usano l’Esperanto
hanno in genere un sentimento particolarmente vivo della propria identità etnica
e spesso un livello culturale più alto delle persone dello stesso rango sociale.
Come negl’incubi infantili, dunque, la minaccia è puramente
immaginaria.
Blocco
psicologico
Di qui ha origine il
blocco psicologico. Se la persona in questione considerasse Il problema e
dicesse a se stesso: “Ma, finalmente, io non so nulla dell’Esperanto: è bene
pertanto che io veda come questa lingua funzioni in pratica”, la minaccia
immaginaria svanirebbe e costui potrebbe finalmente comprendere perché ha
sragionato e come quei suoi incubi irrazionali condizionino il suo modo di
concepire la comunicazione linguistica internazionale. Ma non è facile
affrontare la minaccia del buio operante. Quando uno dorme solo,
di notte, in una capanna isolata e sente strani colpi e vaghi rumori, qual è la
reazione più frequente: alzarsi e andar a controllare ciò che accade, o
rannicchiarsi sotto le coperte, sperando che il rumore cessi?
Gli uomini e la società
si comportano in modo simile in ordine al problema linguistico, giacché questo
tocca zone troppo delicate della personalità, concernenti il rapporto con i
genitori, con la scuola, quindi con le autorità e con il desiderio di
esprimersi a modo proprio. Inoltre il problema linguistico tocca altresì punti
particolarmente sensibili come l’identità, il diritto alla creazione e il
rischio di esser privato della protezione che offrono le barriere linguistiche,
come tutte le barriere: e cioè la protezione contro il pericolo d’incontrare
un’altra cultura in modo così diretto da dover riconsiderare tutto il nostro
modo d’intendere la vita e la realtà. Si preferisce così spender milioni -
e affrontar situazioni complicate quando si viaggia all’estero -piuttosto che
guardar in faccia questa lingua pianificata su cui proiettiamo ogni genere
d’incubi psicologici derivati dall’età infantile.
Perché uno possa
rendersi conto che il suo modo d’intender la questione è errato, è necessario
che egli dedichi all’argomento una riflessione non prevenuta. Ora due
specie di difficoltà fanno ostacolo a tale riflessione: una intellettuale,
l’altra affettiva. La principale difficoltà intellettuale consiste nel fatto che
è difficile integrare nel proprio ragionamento realtà appartenenti a livelli
diversi. Se consideriamo, ad esempio, la questione della lingua e dell’identità,
constatiamo che si possono avere diverse identità a diversi livelli. E’ una
cosa, questa, che viene compresa meglio dalle persone che parlano dialetto. Per
esempio un Frisone che parla il frisone si sente Frisone in rapporto agli altri
Olandesi: egli ha un’identità frisone. Ma egli si sente anche Olandese, parla
anche olandese, ha avuto tutta una serie di esperienze - quali il servizio
militare, la scuola, avvenimenti politici — in comune con altri Olandesi e non,
invece, con Tedeschi, Russi o Italiani. Egli pertanto ha anche un’identità
olandese, che si colloca a un altro livello rispetto alla sua identità
frisone.
Analogamente, se uno
impara l’Esperanto e partecipa alla vita internazionale usando questo
linguaggio, acquisterà una terza identità, quella di soggetto umano, di essere
“planetario”, di terricolo. Se egli non ha un qualche particolare
problema psicologico, le tre identità non entrano in alcun modo in
conflitto fra loro: esse rispondono a diverse situazioni e a diversi sentimenti,
senza che nasca alcun problema.
Per chi abbia
sperimentato in proprio tale condizione non vi sono difficoltà, ma per gli altri
non è così semplice, giacché pensare a diversi livelli è assai più
complicato che non pensare a un livello solo. Questa è ad esempio la ragione per
cui la Francia nell’Ottocento e nella prima parte del nostro secolo proibiva ai
fanciulli della Bretagna di parlare bretone fra loro a scuola durante
gl’intervalli.
Non si ammetteva l’idea
che uno potesse essere al tempo stesso favorevole alla lingua francese e a
quella bretone: secondo la mentalità dell’epoca chiunque era in favore del
bretone era contro il francese: si era incapaci d’integrare i due diversi
livelli.
Un ragionamento simile
può applicarsi alla cultura. Imparare l’Esperanto non significa che uno
cessi di esser interessato a culture legate a diverse lingue nazionali; al
contrario uno può imparare perfettamente l’Esperanto, in modo da usar questo
simpatico strumento di comunicazione con persone che hanno altre lingue materne,
e tuttavia continuar a studiare anche lingue nazionali per il loro interesse
culturale; anzi, l’esperienza mostra che l’Esperanto stimola l’ulteriore studio
delle lingue vive.
Difficoltà
affettive
Questo per le
difficoltà intellettuali. Passiamo ora a quelle affettive.
Queste sono, in realtà,
così numerose, che non è possibile considerarle tutte. Citerò come esempio il
timore della libertà. Forse questo vi sembrerà strano, e tuttavia è un fatto:
gli uomini sentono confusamente che una lingua inventata, convenzionale, è
meno rigida delle lingue che generazioni di affettive di docenti e di genitori
hanno appesantito con le regole più diverse e più rigorose. Ora l’obbedienza dà
sicurezza - si sa cosa si deve fare - mentre la libertà rende malsicuri. O, più
esattamente, la libertà è sempre, al tempo stesso, molto desiderata e molto
temuta. Molto desiderata, perché fare ciò che si vuole, a proprio piacimento,
significa posseder se stessi, orientar la propria vita e partecipare alla
potenza degli dèi. Molto temuta, perché l’esperienza ci ha insegnato, quando
avevamo l’età di tre o quattro anni, che quando uno fa ciò che più gli
piace, non di rado fa del male a se stesso. la libertà linguistica appare
pertanto quale un frutto proibito, è il desiderio della parte creativa di noi,
parte che si pone però in contrasto con tutto l’opprimente processo educativo,
col lungo condizionamento — di cui abbiamo conservato il ricordo e la sensazione
- che noi, piccoli esseri, non abbiamo il diritto d’intervenire nella lingua. La
lingua non può esser toccata. Inventar grammatiche significa arrogarsi un potere
che appartiene agli antenati, a Dio. Creare una lingua ex novo,
pertanto,significa semplicemente commettere un sacrilegio.
Ovviamente io
semplifico troppo. La questione è in realtà più complessa, giacché, se si tende
confusamente ad attribuire all’esperanto ora troppa libertà, ora troppa
rigidezza, non essendo facile immaginare quel riuscito contemperamento fra
libertà e rigore che si è
realizzato nell’esperanto. Un altro elemento affettivo da ricordare è il timore
del caos. Quando la nostra personalità si forma, noi dobbiamo creare un’unità e
un’armonia fra tre diverse tendenze, fra elementi psichici che ci spingono in
direzioni diverse, verso fini difficilmente compatibili, quali ad esempio
piacere a noi stessi, alla madre, ai compagni. Per questo ciascuno di noi deve,
più o meno, tentar di vincere - con più o meno successo —quella che gli
psicologi chiamano “angoscia della disintegrazione”,o, se si preferisce, della
frammentazione. In conseguenza ciò che, come una lingua, nella nostra mente è
associato con la nostra identità, e insieme richiama una forte eterogeneità-
miscuglio di parti che abbiano
origini molto diverse – tutto ciò suscita altresì in noi la sensazione
spiacevole che la nostra personalità non è molto forte e rischia di dissolversi.
E questo tocca il livello inconscio della nostra psiche, che aspira fortemente
all’unità, all’armonia, all’assenza di conflitti. Pertanto, poiché la fama delle
molte bocche narra che l’esperanto è un miscuglio di lingue diverse, noi
proiettiamo su di esso il nostro disprezzo, come su qualcosa costruita male, in
modo errato e pericoloso.
In realtà, se uno sottopone l’esperanto
ad analisi linguistica, constata che esso non è meno omogeneo delle altre
lingue, e anzi assimila gli elementi stranieri molto meglio del francese e
dell’inglese, anche se dimostrarlo qui ci porterebbe troppo lontani dal nostro
tema. Fra gli elementi affettivi, che impediscono un rapporto sereno e senza
paura con l’Esperanto, dovrei ancora menzionare il timore del rischio. Tale
timore si manifesta in diversi modi. Per esempio, nello studio dei problemi
linguistici vi è il rischio di accorgersi che uno ha sbagliato per aver seguito
il primo impulso: e spesso acquisir consapevolezza del proprio errore
costituisce un’esperienza umiliante, sì che uno preferisce non esporsi a
quel rischio, tanto più che gli altri possono farsi beffe di noi. Allora,
anche se riconosciamo in privato che l’Esperanto non è una stolta fantasia,
perché dovremmo aver il coraggio di dichiararlo pubblicamente, stante l’attuale
orientamento contrario dei più?
Vi è altresì il rischio
che, se siamo favorevoli all’Esperanto, dobbiamo, com’è logico, anche impararlo:
e poiché vi sono già molte cose da fare, e abbiamo una complessa vita
professionale, l’idea di tornare studenti non ci sorride molto.
Vi è infine il rischio,
se scegliamo d’imparare l’Esperanto, che questo finisca poi per non esser
ufficialmente accettato (e questo solo, invece, giustificherebbe lo sforzo
impiegato per impararlo) e che quindi la nostra fatica sia vana. Molti non
pensano a tutto ciò in modo chiaro e distinto, né lo esprimono, il più
delle volte, in forma verbale; ma quel complesso d’impressioni forma,
nell’insieme, una sfera nebulosa di sentimenti negativi i quali, non appena
il problema linguistico si pone, influenzano l’opinione del soggetto.
L’Esperanto è un
miracolo
Per render più
comprensibile come le reazioni infantili — di carattere intellettuale e
affettivo - di cui si è detto sopra si alleino per determinare un rifiuto
aprioristico dell’Esperanto sarebbe forse opportuno ricorrere al concetto
di miracolo.
Un miracolo è una cosa
talmente Improbabile che è molto difficile credervi. Ebbene, il fatto è che
l’Esperanto costituisce appunto una lingua miracolosa. Una lingua infatti è una
cosa talmente complessa e delicata che forse neppure una persona su dieci
milioni ha il talento necessario per porre con successo le basi di un idioma
valido e vitale. Si aggiunga che una persona che operasse da sola non potrebbe
comunque crear una lingua, giacché una lingua si forma sempre per un processo
anonimo, collettivo e inconscio.
Affinché il progetto di
uno strumento di comunicazione orale e scritta possa trasformarsi una lingua
realmente vivente è necessario che un qualche gruppo assuma in proprio il primo
nucleo della lingua che viene proposta, ne faccia uso e risolva,
consciamente o Inconsciamente, una grande quantità di problemi diversi a cui un
singolo individuo non avrebbe né forza né tempo sufficienti per dar risposta da
solo. In un tale processo le tendenze psicolinguistiche spontanee esistenti in
ciascun individuo possono manifestarsi liberamente; e una volta che esse si
siano concretamente realizzate, il gruppo conserve poi soltanto, di esse, quelle
parole, espressioni o strutture linguistiche nuove che risultino accettabili
alla sua sensibilità linguistica. Un simile processo si svolge in modo naturale,
in genere in forma Inconscia, e una certa tendenza all’equilibrio - il
fondamento della quale è un desiderio di mutua comprensione - coordina in certo
modo i diversi contributi.
Ma le probabilità che
tutto ciò possa realizzarsi in ambito mondiale sono minime. Pertanto Io affermo
che l’esistenza dell’Esperanto - lingua perfettamente adatta alla comunicazione
internazionale, usata In Giappone e in Brasile, in Islanda e in Iran, appena
cento anni dopo che il suo primo progetto è stato pubblicato - costituisce un
vero e proprio miracolo.
Ora vi sono tre modi di
reagire ai miracoli. Coloro che hanno sentito parlare del miracolo, ma non lo
hanno essi stessi sperimentato, restano nella maggior parte del casi
scettici.
Coloro che, per
questa o quella circostanza, hanno potuto vivere essi stessi quel miracolo non
possono se non credervi, ed essi provano un senso dl frustrazione, constatando
di esser incapaci di comunicare agli scettici quell’evento miracoloso da essi
stessi personalmente sperimentato.
Vi è poi una terza
categoria : le persone che hanno una
mentalità particolarmente chiusa e che hanno solo parzialmente
sperimentato il miracolo, ma credono, e anzi sono convinte e cercano di
convincere tutti del suo valore, solo perché hanno assolutamente bisogno dl
credere in qualcosa. Esse pertanto s’identificano col miracolo e traggono una
sensazione piacevole esaltandosi in un rapporto fanatico con esso come accade
talora a qualche Esperantista). Questa è dunque la situazione della società in
relazione al problema della lingua internazionale. La grande maggioranza non ha
alcun contatto col miracolo, e pertanto esprime verso di esso solo scetticismo.
Un piccolo numero di persone lo ha sperimentato, non può negare ciò che ha
visto e sentito ed è frustrata per il fatto che il mondo esterno non le crede. E
un altro piccolo gruppo ha sperimentato il miracolo, in tutto o in parte, e da
questo ha derivato una più o meno fanatica attività missionaria, giacché un tal
modo di vivere soddisfa diversi bisogni psicologici su cui non è qui il caso di
soffermarsi.
Non vi sono
contraddizioni
Forse voi avete
l’impressione che lo mi contraddica. All’inizio ho a lungo chiarito che la
resistenza all’Esperanto costituisce un blocco psicologico, e ora invece affermo
che essa è del tutto normale, giacché il più usuale atteggiamento, di fronte a
un miracolo, è mostrare scetticismo di fronte ad esso.
Ma in realtà non c’è
contraddizione. Invero, aver un blocco psicologico di fronte al miracolo è un
fenomeno normale o, se preferite, la normale reazione di fronte a un miracolo è
il blocco psicologico: pensiamo solo alle scoperte di Cristoforo Colombo, di
Pasteur, di Edison. Quando un
nuovo concetto scuote tutta la nostra visione del mondo, noi ci blocchiamo di
fronte ad esso, per noi troppo conturbante: il nostro equilibrio psichico ha
troppa importanza, perché siamo pronti a metterlo in pericolo con un brusco
cambiamento del nostro modo di pensare. Ebbene, per millenni e millenni gli
uomini si sono sparsi nel mondo, hanno riscontrato in esso barriere linguistiche
che consentono a ciascuno di conservare una certa distanza fra la propria etnia
e le altre, e in particolare rispetto alle più lontane. Davvero credete che i
turisti occidentali che si accalcano a Mosca potrebbero comprendersi pienamente
e correttamente con gli abitanti del luogo senza un serio turbamento? Occorrono
decenni e decenni per prepararsi a un cambiamento così radicale di tutta la
nostra vita intellettuale. Così l’umanità si protegge, con la sua saggezza
istintiva. Questa è la finalità del blocco spirituale che ho cercato di
descrivere.
Ad ogni modo la Lingua
internazionale avanza
Nonostante tutto questo,
l’idea a poco a poco matura, e ora abbiamo raggiunto un punto in cui non sarebbe
impossibile persuadere i potenti che l’Esperanto consentirebbe loro, e alla
più gran parte dei nostri simili, di operare meno masochisticamente nel campo
della lingua: Il blocco psicologico contiene in sè generalmente, tale elemento.
Una volta ho letto una relazione che spiegava quanto difficile sia stato
installare l’elettricità in certe campagne francesi: i loro abitanti andavano di
notte a sabotare le installazioni.
Una simile resistenza è
irrazionale, e se per un verso è comprensibile e naturale, tuttavia va contro
l’aspirazione al progresso materiale di coloro stessi che incitano al
sabotaggio: per questo appunto un simile atteggiamento ha carattere
masochistico.
Rilievi analoghi
valgono in ordine al problema linguistico. Gli uomini si sobbarcano a molti
sforzi e affrontano molte spese che in realtà non giovano a nessuno - anche i
traduttori potrebbero cimentarsi con testi più Interessanti, per esempio
letterari, se si usasse Il denaro razionalmente - e questo avviene perché non si
è ancora compreso che l’ultima arrivata nella famiglia delle lingue non viene
per aggredirci o per renderci barbari, ma solo per aiutarci, consentendo a
ciascuno di preservare i tesori linguistici ereditati dalla tradizione.
Rifiutare
ciecamente la cura che guarisce significa esser masochisti. Ma spesso a favorire
tale cecità contribuisce, secondo me, anche la vanità. Invero gli uomini che
dispongono del potere traggono vari vantaggi dall’attuale regime linguistico,
giacché padroneggiare l'inglese o il francese, in una società in cui i più non
conoscono quelle lingue - o le conoscono solo imperfettamente — consente di
sentirsi superiori alla maggior parte dei propri simili. D’altra parte, disporre
costantemente dei servizi di persone che traducono in simultanea ogni vostra
parola, non è questa una prova d’importanza? Sapere che mentre discutiamo
durante un ricevimento una coorte di traduttori lavorano come schiavi e
lavoreranno tutta la notte perché le nostre affermazioni appaiano domani in ogni
lingua, non è questo un segno del nostro peso? E sapere che tanti milioni
saranno spesi perché possiamo comunicare con tutti, non è una conferma che le
nostre parole, dunque noi stessi abbiamo un grande valore? Quest’ultimo giudizio
è una mia ipotesi - per quanto io qualche volta lo abbia sentito realmente
pronunziare, quando effettuavo la mia ricerca presso vecchi funzionari o
delegati internazionali - ma probabilmente vi è in esso un fondo di
verità.
Non posso qui
svolgere il tema dei “meccanismi di difesa dell’io”, come gli psicologi li
chiamano nel loro gergo giacché
questo richiederebbe la discussione di teorie psicologiche troppo complicate. Ma
è interessante constatare che tali meccanismi funzionano costantemente negli
oppositori dell’Esperanto, com’è facile dimostrare.
In altre parole,
nel resistere all’Esperanto essi difendono il proprio ego. Se è così, perché
meravigliarsi che i potenti difendano anch’essi il plurilinguismo, quale stato
di cose che dà a loro grandezza, importanza e senso del proprio valore?
Usar l’Esperanto non sarebbe per loro ridursi al livello di una persona
ordinaria?
Forse sì, forse no: non
generalizziamo. Come si è visto sopra, anche senza introdurre il concetto di
vanità si riesce a trovar spiegazioni sufficienti per comprender perché il
miracolo Esperanto lasci scettici la maggioranza dei nostri simili. Fra questi,
molti non cambieranno tanto facilmente, ma molti altri possono liberarsi dal
loro atteggiamento originario, sol che incontrino abbastanza spesso persone che
possano sinceramente testimoniare Il miracolo. Probabilmente solo un tale
contatto graduale e personale potrà a poco a poco modificare il clima generale,
in senso favorevole alla considerazione scientifica, imparziale e obiettiva del
problema linguistico. In tale trattazione obiettiva i fattori psicologici
devono sempre esser tenuti presenti.
Spero pertanto che la mia indagine
sulle cause inconscie dell’atteggiamento negativo di fronte all’Esperanto
e alla questione fondamentale dell’esigenza di una lingua internazionale
possa contribuire al progresso in questo campo.
http://www.disvastigo.it/approfondimenti/approfondimenti_34.htm
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