Intervista a Claude Piron
E’ vero che le lingue artificiali offrono solo delle designazioni e non delle connotazioni?
A parer mio, è un errore mettere , in generale, l’esperanto nella stessa
sacca delle “lingue artificiali”. In quasi 120 anni di utilizzo nelle
situazioni più disparate nel segno di una collettività relativamente
vasta sparsa sulla totalità del pianeta, il progetto di Zamenhof si è
trasformato in lingua vivente. Nessun altro progetto dello stesso
genere, per esempio, è divenuto lingua quotidiana di coppie di doppia
nazionalità, la lingua materna di un certo numero di bambini.
L’esperanto è molto ricco di connotazioni. Molte radici sono
passate nella lingua con le connotazioni della lingua di origine
(è il caso di “hejm” per esempio, che ha le connotazioni
del tedesco “Heim”, o di “klopodi” che ha le connotazioni del russo
“khlopotat” e del polacco “klopotac”). Ciò lo si nota bene
se si fa uno studio comparativo dei campi semantici. In esperanto
“plena” ha il campo semantico e le connotazioni del russo “polnyj”,
non del latino “plenus” o dal francese “plein”. Centoventi anni
di produzione letteraria e di conversazione quotidiana non avranno
lasciato la lingua senza connotazioni. E’ sufficiente vedere a che
punto delle connotazioni diverse da quelle che hanno avuto corso
nell’insieme della popolazione s’installino velocemente nel gruppo
di giovani per capire come questo fenomeno sia naturale e inevitabile
sin dal momento in cui una lingua viene utilizzata.
E’
anche assente il piacere di comprendere l’evoluzione delle parole. Esse
sono di lingue senza storia. Queste sono più vicine a dei codici che a
delle lingue.
L’esperanto ha
una storia. Leggete il mio articolo “A few notes on the evolution
of Esperanto” in Schubert, Klaus, ed. Interlinguistics (Berlino,
New York : Mouton-De Gruyter, 1989), 129-142 (oppure, sotto il titolo
“Evolution is proof
of life”, in www.geocities.com/c_piron).
C’è come in tutte le lingue il piacere di comprendere l’evoluzione
delle parole, come ci sono delle curiosità apparentemente
impossibili da saziare, ad esempio quando ci si chiede da dove è
potuta venire la parola in argot [gergo parigino degli ambienti
della malavita n.d.t.] “Krokodili” (letteralmente “fare il coccodrillo”)
che vuol dire “parlare una lingua nazionale in una situazione dove
il gruppo parla normalmente l’esperanto ( e quindi privare l’ospite
straniero del piacere di seguire ciò che si dice)”. Ho sentito
questa parola in Brasile e in Giappone nel 1970, come in tutta Europa,
sempre con esattamente lo stesso senso, nessuno mi ha potuto delucidare
a proposito del processo mentale che lo aveva creato, né
sulla data e il luogo in cui fosse penetrato nella lingua. Se non
sbaglio è stato inserito nel dizionario nel 1980.
Bisogna ben riconoscere che l’esperanto è lontano, molto lontano, dal
suo fine iniziale di lingua universale, presto riportato a proporzioni
più modeste e non più raggiunte di lingua ausiliare universale.
L’esperanto non
ha mai avuto come scopo quello di essere una lingua unica e di rimpiazzare
le altre lingue. Sarebbe contrario alla sua natura visto che è
stato fondato sul rispetto della diversità e dei più
“piccoli”. E’ stato concepito dall’autore del progetto come seconda
lingua per le persone che non hanno la stessa madrelingua e che
hanno voglia di comunicare utilizzando una lingua libera da tutte
le catene nazionali, egemoni, politiche, economiche e religiose.
Con questo ruolo ha adempiuto perfettamente alla sua funzione e
ha raggiunto il suo scopo, che Zamenhof aveva definito dicendo:
“che ogni persona che abbia appreso la lingua possa utilizzarla
per comunicare con persone di altre nazioni, che questa lingua sia
oppure no adottata dal mondo intero, che abbia oppure no molti utilizzatori”.
[D-r Esperanto, Język międzynarodowy (Varsovie : dall’autore,
stampato Kelter, 1887), p. 7]. Sono io che l’ho messa in evidenza.
Faik Konitza: “ La
lingua artificiale usa le parole solo nel loro valore oggettivo, e le
parole alle quali si assegna questo ruolo invariabile e rigido si
prestano solo all’affermazione netta, alla negazione piatta e
rigida”.
Ciò è
inesatto per ciò che concerne l’esperanto. L’uso soggettivo
delle parole qui, è comparabile a quello che c’è nelle
altre lingue. E’ sufficiente aprire il Plena Ilustrita Vortaro,
che ha autorità quanto il Petit Robert per il francese, per
rendersi conto che questo giudizio non ha fondamenta. Le parole
non hanno, in esperanto, un ruolo invariabile e rigido che si presta
solo all’affermazione netta o alla negazione piatta. Io parlo l’esperanto
dall’infanzia. Sono psicologo psicoterapeuta, ho condotto un buon
numero di psicoterapie in esperanto, ho esercitato in questa lingua
le funzioni di consigliere coniugale per delle coppie con doppia
nazionalità, ho ascoltato in esperanto delle confidenze,
ho partecipato a innumerevoli dibattiti, e posso testimoniare che
il modo su scritto di presentare la lingua non ha alcun rapporto
con la realtà. Nella mia esperienza l’affettività,
e quindi la soggettività, si esprimono più facilmente
in esperanto che non importa in quale altra lingua straniera. Vedere
a tal proposito le pagine da 264 a 270 della mia opera “Le
defì de langues” (Paris : L’Harmattan, 2e ed. 1998, ISBN
2-7384-2432-5).
Inoltre, queste lingue,poiché
tendono prima di tutto a essere facili, esigono nella distribuzione
delle parole una uniformità che priva di ogni libertà e di ogni
flessibilità. Non si possono dire le cose che in un unico modo, una
maniera unica e che è stata prevista.
Come è
facile diffondere gli errori quando non si conosce! L’esperanto
è molto più flessibile del francese e dell’inglese,
è una delle lingue nelle quali è più facile
trovare una grande varietà di formulazioni per esprimere
lo stesso pensiero. Per esempio per esprimere l’idea “andrò
al congresso in treno” si può dire “Mi iros al la kongreso
per trajno”, “mia alkongresado estos trajna”, “mi pertrajne alkongresos”,
etc. Il francese offre meno possibilità. Vedere a tal proposito
il mio articolo “Esperanto-
Il punto di vista di uno scrittore” ("Il linguaggio e l’uomo",
1987,22,3,266-271), e anche "Canzone e traduzione: un esempio
della flessibilità dell’esperanto" ("Le Rotarien",
n.316, maggio 1979, 34-40).
Faik Konitza ha messo così il dito su un
punto delicato delle lingue artificiali: l’assenza dello stile, il livello stanco della lingua. Non si tratta soltanto di stile
“letterario”, ma anche di registro familiare, addirittura popolare.
Evidentemente Faik Konitza
non ha mai ascoltato dei bambini giocare in esperanto, non ha mai
assistito a un dibattito in questa lingua, non ha mai letto una
sua poesia o visto una sua opera teatrale. So, grazie alla mia esperienza
personale che, sul fatto della libertà senza restrizioni
che presiede alla combinazione degli elementi linguistici, la varietà
dei livelli della lingua esiste in esperanto come altrove. Si può
utilizzare il registro amministrativo (Bonvolu ne paroli,
“vogliate astenervi dal parlare”), un registro educato ma stabile
(Ne bruu, mi petas, “Non fate rumore, ve ne prego”) , autoritario
(Silentu! "Silenzio!"), irritato-familiare (Mutu
diable! "Zitti- letteralmente: state muti-,che diavolo!"),
ordinario-rozzo (Fermu la kranon, vi zigzagnazulo, au mi flikos
al vi umbilikon! "Chiudi il becco, tu con il naso a zig-zag,
o ti cambio i connotati!"), etc.
Jean Paulhan: "(…) Le lingue artificiali creano
esse stesse i loro ostacoli. L’elasticità di utilizzo sacrifica la
facilità dell’apprendimento."
Ciò è inesatto. L’esperanto
è più elastico che il francese e l’inglese e ciò
non va a sfavore della capacità di apprendimento. E’ la libertà
nella formazione delle parole, nell’uso delle preposizioni, nella
formulazione sintattica che rende contemporaneamente flessibile
e facile. In francese si è obbligati a dire "je pense
à vous",in inglese I think of you, letteralmente "penso
di voi". Perché in esperanto l’uso delle preposizioni
non ha a che fare con l’utilizzo, bensì con lo stile e il
senso, si può tradurre questa frase in diverse maniere: "Mi
pensas al vi" è più dinamico ("il mio pensiero
si dirige verso di voi"); "al" vuol dire "verso,
a"); "mi pensas pri vi" è più statico
("l’oggetto del mio pensiero, siete voi"; “pri” introduce
il tema, il soggetto del quale si parla).
Io la rispetto molto ma mi piacerebbe che lei
s’informasse un po’ di più prima di diffondere delle affermazioni
categoriche su un argomento di cui è chiaro voi non abbiate alcuna
conoscenza. E’ spesso doloroso di essere un ex bambino esperantofono.
Ci si scontra costantemente con delle critiche che non hanno alcun
fondamento, ma che sono ben formulate, coloro che le professano
ignorano la loro ignoranza. Bisognerebbe avere l’onestà intellettuale
di dirsi che non si conosce una cosa se la si apprende tramite una
definizione , da ragionamenti a priori o da articoli di riviste
pubbliche. Non si può parlare validamente di una lingua in cui ci si è
tuffati nel mezzo, se si ha abbastanza onestà intellettuale per
rimettere in questione le evidenze che ci mettono continuamente in
testa e se la si paragona alle altre lingue utilizzate nello stesso
modo in situazioni analoghe. Le critiche sull’esperanto sono
estremamente frequenti ma rapportano dei tratti comuni che ne
dimostrano l’inutilità:
1. Non si fondano mai
sull’esperanto reale, quello utilizzato in pratica (per esempio
sull’osservazione di una scienza, lo smantellamento di una serie di
riviste, un’analisi di testi o di registrazioni di conversazioni).
2. Non si poggiano mai sullo studio della documentazione disponibile
(lavori di ricerche pubbliche in diverse università sullo studio
dell’esperanto reale).
3. Esse evitano
tutti i paragoni con i sistemi sui quali si è obbligati a
combattere a livello internazionale per capire se si scarta l’esperanto
(l’esperanto non può essere la soluzione ideale, ma è
forse meglio l’inglese o Globish? Come lo si può comparare
in pratica al plurilinguismo? E, esso facilita il poliglottismo?
E’ possibile di giudicare nel mio caso. Sarei stato traduttore all’ONU
di inglese, spagnolo, cinese e russo se non avessi saputo prima
l’esperanto?)
4. Esse sono formulate con un tono
tale che l’esame della questione si trova, in effetti escluso a priori,
come se non ci fossero dei fatti da verificare prima di formulare un
giudizio. Altrimenti detto, l’esclusione non è la conclusione logica
di un’analisi imparziale, è il risultato di una presa di potere. E’
dello stesso ordine pensare alla bocciatura di uno studente da parte di
una commissione che non ha neanche letto i suoi lavori ottenuti con
diversi esami.
Sarebbe simpatico se, prima di discutere di
problemi linguistici, voi accettiate di procedere secondo uno spirito
democratico: senza condanne prima di aver accertato i fatti, senza
giudizi dati a priori, con un ascolto tollerante di coloro che hanno
un’opinione differente, ma che possono avere una conoscenza
dell’argomento che a voi manca… L’oggettività è possibile, non è
assolutamente nemica di una sana soggettività. Perché non rispettarla?
(forum de Esperanto-Radikala Asocio)
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